Il gioco è la modalità per antonomasia attraverso cui ci si relaziona ai bambini ma a cui solitamente l’adulto, negli anni, dedica sempre meno tempo. Sbarazzarsi del bambino che ci abita quando non siamo più piccoli, con i suoi disordini e le sue disarmonie, sembra un meccanismo che spesso si impone con le sue pressioni incalzanti. Dobbiamo raggiungere mete personali e professionali, non c’è tempo per giocare, ancor meno per giocare in gruppo, dobbiamo andare dritti verso i nostri obiettivi, in perfetta risposta alle richieste dell’ambiente che ci circonda e troppo spesso il bambino interno, come rappresentante di potenzialità sconosciute, deve sparire in un processo di crescita concepito in modo lineare, in quanto la sua sopravvivenza indica un deficit, qualcosa di incompiuto.
Eppure il gioco rimane una modalità privilegiata per tornare in contatto con alcune parti di noi altrimenti un po’ meno accessibili e, se osservata con un po’ di attenzione, rimane veicolo di interessanti spunti di riflessione sociale, relazionale e psicologica.
Il bambino che è in noi può essere un’importantissimo promotore di un dialogo tra le nostre parti interne ed il gioco è una delle strade attraverso cui può venire alla luce una dimensione inconscia plurale del soggetto. Ricontattare o tenere aperto il dialogo con suddetta dimensione ci permette di accedere più facilmente ad una potenzialità evolutiva che richiede ascolto, che cresce in un terreno gruppale.
Alla base del nostro “come giochiamo” c’è la nostra storia, il nostro soggettivo “chi siamo”. Non tutte le narrazioni sono espressione della fantasia, ma tutte danno una forma e un senso alle nostre esperienze, anche quelle che passano attraverso l’espressione artistica, un film, un gioco. Le narrazioni/interpretazioni che caratterizzano il gioco, il “fare come se…”, sono traghetti su cui attraversiamo territori altrimenti più difficili da esplorare, tanto più in condivisione ed appartenenza gruppale.
Come ribadito più volte in queste pagine, a prescindere dall’argomento trattato sono una strenua sostenitrice della singolarità di ogni esperienza: non esistono due persone uguali e non possono esistere due giocatori uguali. E’ tuttavia possibile rintracciare delle similarità, dei principi organizzatori delle nostre modalità di gioco del tutto riscontrabili anche in altri giocatori. Forse si potrebbe partire da una domanda che, solitamente, noi psicoterapeuti cerchiamo di non porre mai: “perché?”. Perché giochiamo? Quali nostri bisogni trovano soddisfacimento nel gioco?
Le risposte possono essere molteplici ed essere tutte più o meno valide allo stesso tempo. Possiamo essere spinti da pulsioni regressive, come pure dal piacere di prevalere sugli altri o di aiutare gli altri; possiamo gratificarci del piacere di portare a termine con successo delle “missioni” o più genericamente essere inclini alle dipendenze ed alle sfide e vivere il gioco in quanto appendice di uno di questi aspetti. Non va poi trascurato l’aspetto socializzante del gioco, da sempre presente nei giochi da tavola ed oggi offerto, con le enormi differenze introdotte dalla potenziale condizione di anonimato, dalle esperienze ludiche online.
Il discorso potrebbe essere allargato sino a disamine sociali legate all’antropologia culturale: si pensi ad esempio agli spunti offerti da una ricerca del 2007, finanziata da Intel e dal Governo statunitense, secondo cui i giocatori online di World Of Warcraft (per citare un gioco che, come altri oggi, ha vantato oltre 10 milioni di gamers) gli asiatici prediligerebbero giocare da internet caffè o da spazi wi-fi comuni, così da ritrovarsi per avere fisicamente vicino i compagni di gilda o amici con cui stanno giocando, mentre se nordamericani generalmente preferirebbero giocare in una condizione di silenzio ed isolamento, collegandosi da casa. O, ancora, non mancano ricerche psicobiologiche o legate alla neurologia circa la relazione gioco-funzioni cognitive. Per citarne una tra le più recenti (2012), la North Carolina State University ha presentato uno studio effettuato su soggetti tra i 60 ed i 77anni, che evidenzia come il giocare a WoW possa migliorare le funzioni cognitive di adulti e anziani, in particolare si rilevano punteggi migliori ai test riguardanti abilità cognitive rispetto a quelli ottenuti con analoghe prove fatte prima di giocare il gioco[1].
Segnalo poi l’interessante ricerca del 2011[2] del collega Dott. Luca You Zi Lin, che si interroga sul rischio di sovrastimare la diffusione della patologia di dipendenza da videogioco, ignorando il fatto che alcune attività, dove le abilità di un soggetto sono in perfetto equilibrio con la difficoltà della sfida, permettano uno stato di coscienza alterato dove la percezione del tempo è diversa da quella usuale, e quindi un protrarsi nel tempo del comportamento di gioco in un videogioco pensato appositamente per durare migliaia di ore e tenere l’utente connesso mesi o anni.
Ci sono, a volte, sensazioni legate al gioco che stridono con le tante positive e che possono in qualche modo contagiare l’intera esperienza lasciandoci sempre, alla fine, un retrogusto amaro. Generalmente sono riconducibili alla condizione di dipendenza dal gioco stesso, essa sì (non il gioco in sé!), meritevole di un approccio psicologico diverso. Si pensi alla sottile ansia per la sorte degli ortaggi di Farmville, od agli appuntamenti con gilde e gruppi di gioco che finiscono con il prevalere sistematicamente su qualunque altro tipo di impegno; dalle ore di sonno perse, alle uscite con amici o parenti rimandate per stare in casa a giocare.
Oggi si gioca a Fortnite, ma la sostanza non cambia. Cosa ci rende incapaci di staccarci dallo schermo se non abbiamo raggiunto un certo obiettivo o collezionato tutto il collezionabile e com’è che ci si ritrova senza accorgersene a pensare spesso, troppo spesso, alle cose da fare appena potremo tornare al nostro gioco?
Soprattutto nel mondo videoludico alcuni trucchi per “favorire” la dipendenza sono evidenti. Nel mondo reale, le nostre azioni non sempre hanno conseguenze rapide e positive e spesso bisogna saper pazientare molto per ricevere la ricompensa ai nostri sforzi. Soprattutto nelle fasi iniziali di un gioco, invece, una serie di gratificazioni sono istantanee. Le nostre prime missioni coincidono spesso con un tutorial e ci permettono allo stesso tempo di ricevere ricompense e muovere i primi passi nel gioco, incuriosendoci via via su ciò che vedremo, faremo, otterremo… Di tanto in tanto poi, in quasi ogni tipo di gioco è possibile ricevere bonus, oggetti o premi “casuali” e diversi anche nel momento in cui si ripete una missione o una sezione di gioco, e questo ci incoraggia a rigiocare scenari già visitati. Oppure ci sono eventi ad hoc, che durano poche ore o pochi giorni che “non possiamo perdere”. Tante piccole trappole pensate per rendere più irrinunciabile il nostro appuntamento.
Voglio essere chiara su un punto: essere “grandi” e giocare, anche giocare con appassionata costanza, non significa “avere un problema”! Quanto scritto in queste righe nasce dalla mia passione per il sano giocare ed al contempo dall’aver osservato come anche nel lavoro sia stato utile avere questo tipo di interessi. In conseguenza a ciò, l’idea di offrire uno spazio di gruppo, cui comune denominatore possa essere a seconda dei casi la dipendenza dal gioco o il problema del gioco vissuto come “evitamento del confronto sociale nella realtà”, ma pure la passione per il gioco in sé e la curiosità di provare a leggere in maniera differente, a partire da un vertice psicologico, le dinamiche che sottendono le ore ad esso dedicate.
Scrivevo poco fa del gioco come strategia di evitamento, forse vale la pensa spendere due parole per esplicitare il mio pensiero. Ci possono essere periodi della vita in cui uscire, incontrare gente o recarsi in luoghi affollati può essere un fattore di stress, una vera fatica o una difficoltà insormontabile. E’ naturale cercare di evitare tutto ciò che ci mette in crisi, e tali manovre di evitamento vengono spesso rinforzate dal “dover stare a casa” per impegni di gioco. Di nuovo, il problema non è da ricercarsi nel gioco, ma in altro. Però si può partire dal gioco per parlarne.
Ritengo poi interessante anche approfondire il come giochiamo. Perché se si gioca in un ambiente fantasy si finisce per scegliere prevalentemente un certo tipo di personaggio? Perché se mi diverto ad interpretare un nano, difficilmente mi divertirò altrettanto nel farmi rappresentare da un psg elfo (o viceversa)? Perché se gioco non riesco a sentirmi a mio agio stando nel “lato oscuro”, con i “cattivi”? O, ancora, perché mi innervosisco se non ho parlato con tutti quanti appaiono nella scena o non ho svolto ogni azione possibile in una data location? Perché adotto una certa strategia investigativa e cooperativa piuttosto che un’altra o perché non prendo neppure in considerazione un gioco che delega alla fortuna buona parte del suo svolgimento ed esito? Alcuni giochi si prestano più facilmente di altri a certe analisi e a partire da queste domande, apparentemente piuttosto banali, si può invece arrivare ad osservazioni ed auto osservazioni tutt’altro che banali.
I gruppi che propongo sono di tipo differente ed hanno implicazioni diverse a seconda che siano rivolti a chi è curioso di partecipare ad un ciclo di incontri finalizzato alla maggiore comprensione delle dinamiche psicologiche e relazionali che sottendono l’attività ludica o piuttosto a chi prova un disagio legato alla sensazione di dedicare al gioco troppo tempo e di esserne in qualche modo dipendente.
Per maggiori informazioni contattatemi attraverso i riferimenti presenti nel sito.
[2] Zi Lin Luca You (2011) “Differenze tra dipendenza da videogiochi online e alto intrattenimento non patologico in un campione di giocatori italiani”, presentato al 6° Congresso Europeo AEPEA. Per contatti: you.zilinluca@gmail.com
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