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Perchè non mi occupo di omosessualità

Immagine del redattore: alessandraschiavonalessandraschiavon

Aggiornamento: 13 ago 2019



Nel dicembre 2013, sulle pagine del Corriere della Sera online, ho letto il commento di un lettore  che mi ha colpito al punto che, a distanza di tempo, mi son ritrovata a pensarci…

La notizia riportata dal giornale riguardava il coming out di un famoso atleta ed il lettore in questione scriveva, con la premessa di essere un tirocinante di psicologia, più o meno  “sulla base della mia esperienza con pazienti omosessuali, immagino nella sua vita ci sia stato un lutto non elaborato e non mi stupirei se il suo compagno fosse molto più vecchio di lui…Se fosse entrato in terapia prima, oggi non ci sarebbe bisogno di curarne l’omosessualità”. Non riesco a trovare il virgolettato autentico e mi scuso quindi di questa involontaria approssimazione  ma, a prescindere dalle parole esatte e dalle vere intenzioni comunicative del futuro collega (che spero di avere frainteso) questo era, a mio avviso, il senso più facilmente percepibile da esse.

Lavoro spesso con pazienti che hanno affrontato lutti, ed ho la fortuna di essermi formata ed operare  in una equipe di colleghi estremamente competente ed esperta in merito. In tutti questi anni di collaborazioni e confronti a nessuno è mai capitato di ipotizzare una, generalizzabile, correlazione lutto-omosessualità.

Mai respingere un’osservazione ed un possibile approfondimento a priori, però la perentorietà del collega tirocinante mi ha un po’ preoccupata perché si rischia di passare un messaggio a dir poco fuorviante.

Accostare la parola “guarigione” o “cura”  a “omosessualità” nella professione è, semplicemente,  un errore. Non è che si “guarisce dall’omosessualità”: non c’è alcunché da cui guarire!

Indubbiamente una persona  può soffrire il fatto di essere omosessuale o di avere pulsioni omosessuali (che di per sé non definiscono il nostro orientamento sessuale) e portare dallo psicoterapeuta il suo disagio, i suoi timori e la sua ansia. In tal caso il terapeuta si impegna ad occuparsi di quella persona, della sua situazione egodistonica e dei suoi timori. Senza pregiudizi e senza “tifare” per alcun esito se non per il benessere del paziente.

Faccio un parallelismo un po’ forzato nel tentativo di spiegarmi al meglio: gli psicologi che lavorano nell’ambito della consulenza alla coppia non si occupano di “matrimoni” o “convivenze”, si occupano di coppie. Non è “l’istituzione matrimonio” disturbante o problematica ma è “quella relazione”, che evidentemente  non funziona più per la coppia o per uno dei protagonisti.

In terapia di coppia ci vanno coppie eterosessuali ed omosessuali e ci possono essere delle specificità riconducibili all’essere nell’una o nell’altra situazione, certo, ma non necessariamente l’oggetto dell’intervento terapeutico sarà centrato su ciò.

Le cosiddette terapie riparative (reparative therapy) o di conversione, che mirano a modificare l’orientamento sessuale, NON sono appoggiate né sostenute dall’ Ordine Nazionale degli Psicologi Italiani che anzi esplicita e sottolinea come non sia né etico né scientifico un intervento del genere neppure se richiesto dal paziente.

I fatti sono che dal 1973, gli psichiatri hanno concordato l’esclusione dell’omosessualità e della bisessualità dall’elenco delle malattie mentali. Dal  1986, la “diagnosi di omosessualità” è stata rimossa dal DSM, ovvero il più autorevole manuale diagnostico,  condiviso internazionalmente da psichiatri e psicologi a prescindere dal loro orientamento teorico.

Una persona omosessuale così come una coppia omosessuale insomma, dovrebbe essere superfluo scriverlo e dirlo, non sono di per sé oggetto di cura.

Ecco perché, un po’ provocatoriamente,  desidero specificare che non mi occupo di omosessualità.

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