È che nella vita può capitare di sentirsi esattamente così.
A terra, faccia a terra, senza energia, come senza vita. Ogni respiro una sofferenza. Ogni respiro ti chiedi se augurarti sia l’ultimo.
Le lame sono piantate lungo tutto il dorso, dalla nuca ai lombi. Le viviamo come pugnalate prese a tradimento, che non ci aspettavamo.
Forse arrivano proprio da chi fino a poco prima avevamo al nostro fianco, da chi ritenevamo affetto importante e che improvvisamente ci ha invece colpito tutto assieme una, due, tre…troppe volte…con implacabile superficialità o crudeltà, cogliendoci del tutto impreparati, disarmati e sprovvisti di qualsiasi protezione per tale spietato gesto.
O forse queste lame non le brandiva nessuno ma son piovute dal cielo, nel farci confrontare con una terribile notizia, una perdita, una malattia importante.
Nel cielo, per mare o sulla terra tutto è così cupo, fermo, in questa immagine carica di dolore, sofferenza, di schiacciante frustrazione e sconfitta.
Non ci sono attorno altri esseri viventi. La persona è sola, perché non può che essere così che ci si sente quando si tocca il fondo, quando ragione e logica sembrano impazzite e non possono venirci in aiuto, quando il corpo soffre al punto di paralizzarsi nel tentativo di preservare almeno le essenziali energie vitali.
Ma queste ferite sono davvero indicative di rovina definitiva?
Le dieci lame sottolineano l’impatto devastante dell’attacco ricevuto, ma non sono penetrate al punto di ucciderci.
Questa immagine, tra le più potenti che mi sia fermata ad osservare di recente, mi impone di ricordarmi e di ricordare che anche quando ci sentiamo feriti mortalmente, per definizione non siamo morti.
Certo qui non si parla di una delle tante, per lo più inevitabili, prove della vita: qui si parla di giorni e vissuti catastrofici e annichilenti. Di quelle botte che ti colgono inevitabilmente impreparato, che ti tolgono lucidità e possibilità di scorgere qualsivoglia appiglio cui aggrapparsi.
Sta a noi far sì che anche questi giorni, che ci travolgono e lasciano stesi e senza fiato, che ci fanno talmente tanto male da non poterne comprendere alcun senso o significato, si inseriscano in una biografia ancora insatura.
Non potrà essere né semplice né veloce comprendere come rialzarsi e forse neppure concederselo. Perché poi, giuste o meno, sensate o meno, a trattenerci ancora al suolo arriveranno, inevitabili e quasi altrettanto feroci, le autocritiche, i dubbi, i sensi di colpa: “Come ho potuto non prevedere che potesse accadere?!”; “Se avessi agito diversamente forse sarebbe ancora qui…”; “Perché ho permesso di ritrovarmi a questo punto?”; “Perché mi sono fidat* al punto di scoprirmi così tanto?!”; “Se ora ha potuto farmi una cosa del genere, allora forse il nostro “prima” era tutta una bugia …”; “Come potrò superare tutto questo??!”; “Come potrò mai smettere di sentire questi squarci che presentificano, incidono, nella psiche e nel soma una assenza lacerante? Se mi muovo penso andrò in pezzi, dato che anche solo respirare e aprire gli occhi mi fa male” …
I segni addosso, più o meno visibili, li porteremo sempre, la vera sfida sarà prima di tutto sopravvivere, continuare a respirare giorno dopo giorno fino a risorprenderci nuovamente in piedi, cambiati, con qualcosa in più e qualcosa in meno ma desiderosi di riprendere a camminare.
E nel far tutto ciò scopriremo di avere risorse che non sapevamo di avere e troveremo aiuti inattesi.
Mi piace pensare che in questa immagine ed in questa disperata condizione, l’aiuto a rialzarsi possa arrivare proprio dall’osservatore che la ritrae, che ha l’onere e l’onore di chi la ferma, la individua e la accoglie sapendola riconoscere in tutta la sua drammaticità, senza la pretesa di poterla rendere meno greve entrando in scena da subito ma aspettando piuttosto il tempo gusto, il tempo in cui sarà possibile indicare che a ben guardare c’è anche, sempre, un sole che sorge ed apre al nuovo giorno. Al domani. Anche dopo le spade.
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